“Ti farò mia sposa per sempre” (Os 2, 21) Il Triduo pasquale della Passione e Risurrezione del Signore
«Perciò, ecco, io la sedurrò,la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore…Ti farò mia sposa per sempre,ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2, 16-22).
Il Triduo pasquale è la celebrazione annuale della sponsalità di Cristo con la sua Chiesa. Inizia il Venerdì santo, memoria della passione e morte del Signore; prosegue nel Sabato santo: giorno del silenzio e dell’attesa e termina con i Vespri della Domenica di Pasqua dove la Sposa canta al suo Sposo risorto, vincitore della morte, perché l’ha resa, con il dono del suo Spirito, madre di una moltitudine di figli.
È introdotto dalla celebrazione della messa in Coena Domini, quasi portale d’ingresso al mistero che la Chiesa celebra e dove è sintetizzato sia il significato dell’intero Triduo, sia della vita della Chiesa, sia di quella del cristiano. Così preghiamo all’inizio della celebrazione: «O Dio, che ci hai riuniti per celebrare la Santa cena nella quale il tuo unico Figlio, prima di consegnarsi alla morte, affidò alla Chiesa il nuovo ed eterno sacrificio, convito nuziale del suo amore, fa’ che dalla partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di vita».
Nell’antifona d’ingresso così prega la Chiesa che celebra: «Di null’altro mai ci glorieremo se non della croce di Gesù Cristo, nostro Signore: egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione; per mezzo di lui siamo stati salvati e liberati». E nella orazione sulle offerte: «Concedi a noi tuoi fedeli, Signore, di partecipare degnamente ai santi misteri, perché ogni volta che celebriamo questo memoriale del sacrificio del Signore, si compie l’opera della nostra redenzione». Anche l’antifona di comunione mette in evidenza il mistero del suo dono di vita: «Questo è il mio corpo, che è per voi; questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, dice il Signore. Fate questo ogni volta che ne prendete, in memoria di me».
La messa in Coena Domini è stata voluta dal Concilio Vaticano secondo come apertura del Triduo. Viene fatta la sera ed ha un tono festivo. I testi biblici e le preghiere mettono in risalto, come abbiamo visto, che Cristo ci ha dato la sua Pasqua nel rito della cena che esige sul piano della vita il servizio della carità fraterna come condivisione del mistero della passione del Signore. In questo contesto va visto il rito della lavanda dei piedi. Al termine della celebrazione eucaristica, il Pane consacrato viene portato solennemente ad un luogo preparato perché sia adorato fino alla mezzanotte e conservato per la comunione dell’azione liturgica del Venerdì Santo. Non si tratta di un sepolcro, ma di una solenne ostensione del tabernacolo che contiene il Santissimo Sacramento. Che la celebrazione eucaristica sia portale d’ingresso al Santo Triduo ce lo dice la liturgia nell’antifona d’ingresso: «Di null’altro mai ci glorieremo se non della croce di Gesù Cristo, nostro Signore; Egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione».
Il Venerdì santo: primo giorno del Triduo
La Chiesa celebra il mistero della morte di Gesù con una solenne liturgia della Parola. È il giorno dell’adorazione della croce. La liturgia di questo giorno esprime una teologia della croce ispirata all’evangelista Giovanni. Non è il giorno del lutto della Chiesa, ma il giorno della contemplazione del dono di vita per noi e per tutti; è il giorno del dono di amore fino alla morte. La croce è contemplata come talamo nuziale. Nella prima preghiera la Chiesa afferma che con la liturgia del Venerdì santo si inaugura, nel sangue di Cristo, il mistero Pasquale.: «Ricordati, Padre, della tua misericordia; santifica e proteggi sempre questa tua famiglia, per la quale Cristo, tuo Figlio, inaugurò nel suo sangue il mistero Pasquale»; e nell’altra orazione così preghiamo: «O Dio, che nella passione di Cristo nostro Signore ci hai liberati dalla morte, eredità dell’antico peccato trasmessa a tutto il genere umano, rinnovaci a somiglianza del tuo Figlio; e come abbiamo portato in noi, per la nostra nascita, l’immagine dell’uomo terreno, così per l’azione del tuo Spirito, fa’ che portiamo l’immagine dell’uomo celeste».
Il Venerdì santo è il giorno di una unità d’amore che scaturisce da quell’acqua e sangue scaturiti dal costato trafitto. Giorno di adorazione dello Sposo, adagiato sul letto nuziale, che è la croce, che vuole indicare anche il sì della Sposa, il suo abbandono in lui. Per questo si adora baciando in una effusione amorosa che significa appartenenza. Ma prima di questa esperienza, che potremmo definire di intimità sponsale, la Chiesa si mette in ascolto dell’Amato. L’ascolto è l’espressione del desiderio della Sposa di accogliere lo Sposo, di parlargli di sé, della sua vita, dei suoi desideri, di ascoltarne il cuore, le sue fatiche, i suoi progetti di vita e nello stesso tempo, con il cuore pieno di velato amore, intercede, perché resa madre, per i suoi figli e per tutto il mondo. Come Gesù sulla croce intercede per la Chiesa, sua Sposa, la purifica con il suo dono di vita, con il suo sangue: «Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati» (Liturgia eucaristica), così la Chiesa intercede per le sue necessità e per i bisogni di tutto il mondo.
La preghiera universale è l’espressione di una comunità ecclesiale fortemente incarnata nella storia, in una quotidianità che è l’impegno costante a favore dell’uomo. È universale perché tocca tutti gli ambiti della società e della Chiesa stessa. Nessuno deve essere escluso dalla preghiera della Chiesa per l’umanità perché lo Sposo ha dato e dà se stesso per tutti. La Sposa, fecondata dallo Sposo, non può rimanere nel godimento solitario, ma sente il bisogno di portare allo Sposo, attraverso la preghiera ed il servizio, tutti coloro che hanno bisogno della luce, della pace, della riconciliazione, della speranza, della condivisione. Proprio per questo, conoscendo le nostre fragilità e inadempienze sentiamo il desiderio di un Amen rinnovato, di un sì che è progettualità di vita in Lui, con Lui e per Lui.
Questo è il motivo per cui la Liturgia ci offre il corpo di Cristo, nella Santa comunione, pur non celebrando l’Eucaristia. Il Venerdì santo dell’agonia e morte del Signore diventa, con la comunione sacramentale, la profezia della Risurrezione. Sì, celebriamo la morte del Signore, finché Egli venga. «Annunciamo la tua morte Signore proclamiamo la tua risurrezione in attesa della tua venuta» (Liturgia eucaristica). Quell’Amen che diciamo nella comunione, dopo aver ascoltato la Parola, e aver pregato per la Chiesa intera e per il mondo, all’inizio del Triduo diventa un sì a questo Signore, al suo dono d’amore che ci dice, anche oggi: «Ho sete» (Gv 19,29).
Diceva la Madre Teresa: «Quella parola, scritta sul muro di ogni nostra cappella, non riguarda solo il passato, ma è ancor oggi viva. È pronunciata in questo momento per voi. E’ Gesù stesso che dice: “Ho sete!”. Ascoltatelo pronunciare il vostro nome ogni giorno, non solo una volta… “Ho sete!” È qualcosa di molto più profondo che dire semplicemente da parte di Gesù: “Vi amo”. Se non sentite nel profondo di voi stessi che Gesù ha sete di voi, non potete capire ciò che lui può essere per voi e voi per lui». Gesù ci chiede, come chiese alla Samaritana: «Dammi da bere» (Gv 4,7); ridiventa mia sposa nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, onorandomi per tutta la tua vita! Facendo la Santa comunione, quasi come un grido passionale d’amore, gli diciamo: «L’anima mia è assetata di te o Dio, del Dio vivente» (Sal 42). E ancora con le parole del Salmo 63 gli diciamo: «Dio, Dio mio, dall’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne come terra deserta, arida senz’acqua”… Il tuo amore è più dolce della vita, le mie labbra ti celebreranno».
Nella comunione sacramentale del Venerdì santo, contemplando il mistero del suo amore per noi, già viviamo in anticipo ciò che sarà nella Gerusalemme del cielo. A Cristo che ha sete dell’uomo questi risponde con la sete di Dio, finché non ci sarà l’ingresso nella Gerusalemme celeste dove saremo assetati da Dio: «Chi ha sete venga; chi vuole prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17). «Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà la fonte delle acque della vita, e Dio scioglierà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,16-17).
Questo misterioso “Sì” è il segreto della riuscita della nostra vita.
Il sì a Cristo crocifisso è la porta della vita nuova perché vita con-divisa da lui. Questo è il motivo del digiuno. Non ci si può concedere allo Sposo se non ci liberiamo da tutti i nostri vari idoli. Il digiuno è un segno-bisogno di purificazione da tutto ciò che facciamo entrare in noi: pensieri, parole ed opere, che non ci fanno essere “puliti” davanti a Lui, pronti per l’Amato.
Il digiuno è un segno “sacramentale” del nostro desiderio di accogliere lo Sposo, di farci fecondare da Lui, di gioire con Lui. Questo è quanto la Chiesa ci ha chiesto nel tempo quaresimale. Il digiuno di un giorno è segno della nostra quotidiana conversione al Signore; della nostra lotta contro lo spirito del male: spirito di egoismo, di indifferenza verso il prossimo, di giudizio, di una progettualità tutta incentrata sul nostro io. Il digiuno che la Chiesa ci chiede in questo giorno ha la funzione di ri-cordare di essere nati alla fede dal Suo dono di vita. Questo digiuno è invito della Chiesa a fare della nostra vita un dono, a perderci per ritrovarci nuovi accogliendo il dono di vita di Cristo.
«Se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la sua vita per me, la troverà» (Mt 16,24-25). Allora il digiuno del Venerdì santo diventa segno del bisogno di essere purificati, pronti all’incontro con lo Sposo, pronti per entrare con Lui alla festa delle nozze, non come invitati, ma come Sposa che chiede la sua visita, la sua presenza. «Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!”… “Vieni, Signore Gesù”; “Sì, verrò presto!”» (cfr. Ap 22, 16-20).
Il silenzio con il quale termina l’azione liturgica non è espressione di una morte avvenuta, da cui scaturisce tristezza, sgomento, ma è segno di cuori bisognosi di godere del dono, dell’appartenenza; dell’essere una unità con Lui: «[Padre] che tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21).
È il silenzio dell’amore consumato in un sì totale che feconda la vita rendendola vita abitata da lui e da ogni persona: «per voi e per tutti».
Secondo giorno del Triduo: Sabato santo
Questo secondo giorno del Triduo è caratterizzato dal silenzio che non è assenza di parole, ma tempo necessario di meditazione silenziosa del mistero dell’amore donato e ricevuto. È un tempo pieno di preghiera. Il silenzio della Chiesa è contemplazione del mistero dell’amore donato e ricevuto. Non è un giorno di preparazione alla domenica, ma godimento per un’accoglienza che ha ridato senso alla nostra vita. Un godimento che ha varie fasi: dal silenzio alla memoria delle grandi opere di Dio, alla carità come possibilità di entrare “nel sepolcro” di tanti che hanno smarrito il senso del vivere, del soffrire, dell’amare, alla purificazione della propria vita, preparando così la nostra persona all’incontro, all’abbraccio benedicente da cui scaturisce la festa.
Terzo giorno del Triduo: Domenica di Pasqua
E’ il canto dell’amore della Chiesa che accogliendo il suo Signore si vede fecondata di nuovi figli. Ecco perché la Liturgia della notte, soprattutto, è completamente incentrata sulla luce che ha vinto le tenebre, come cantiamo con il Preconio al cero, simbolo di Cristo risorto e anche sul battesimo. L’acqua fecondata dallo Spirito diventa simbolo di risurrezione, di vita nuova. E’ una notte illuminata che dà senso al vivere dell’uomo schiacciato dalla morte; è la notte della nascita delle nuove creature; è lo splendore di luce della Chiesa amata e amante che si ritrova fecondata e canta all’Amato che vive attraverso e in coloro che credono in Lui, in coloro che sono stati generati non da un seme corruttibile ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna. La Pasqua è il canto della vita scaturita da un atto di amore, di dono totale. E la felicità che non nasce dalla terra, ma dal cielo. E’ l’esperienza dei discepoli che, ancorati al passato, vanno a far visita al sepolcro e si sentono dire: «Non è qui, è risorto! Vi precede in Galilea». Vi precede cioè nel vostro quotidiano: «Io sarò sempre con voi», perché sperimentiate il mio amore che, unito al vostro, trasforma il dolore in gioia, il lutto in vita, la disperazione in gioia, in attesa della domenica senza tramonto quando l’umanità intera entrerà nel riposo di Dio, dove sarà la pienezza di ogni cuore. Con la risurrezione di Cristo ha avuto inizio l’ottavo giorno, il giorno senza tramonto. In esso confluiscono e trovano compimento i sette giorni della prima creazione rovinata dal peccato. Ecco perché Paolo afferma: «Se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono passate di nuove…”» (2 Cor 5,17). Proprio per esaltare questo giorno, che ha dato un senso nuovo al vivere e al morire, la Chiesa prolunga il giorno ottavo della Pasqua per cinquanta giorni, come fosse un unico giorno di festa. La Chiesa non può godere dell’Amato in un solo giorno, ma prolunga la gioia per cinquanta giorni, come se fossero un unico giorno di festa: è la Pentecoste. E tutte le domeniche successive non sono chiamate domenica dopo Pasqua, ma domenica prima, seconda, terza, ecc. di Pasqua, fino alla Pentecoste che, mediante il dono dello Spirito, apre orizzonti ampi quanto è ampio il mondo perché tutto e tutti possano professare l’unica fede.
Concludo con la preghiera colletta della Domenica di Pentecoste: «Dio Onnipotente ed eterno, che hai racchiuso la celebrazione della Pasqua nel tempo sacro di cinquanta giorni, rinnova il prodigio della Pentecoste fa che i popoli dispersi si raccolgano insieme e le diverse lingue si uniscano a proclamare la gloria del tuo nome». E’ questa la sponsalità che non conosce confini di tempo e di spazio, fino alla domenica senza tramonto quando tutto e tutti avremo la pienezza del dono dello Spirito e vivremo nella comunione divina
don Pierino
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