Oltre il dolore: il valore della sofferenza
Il nostro Maestro vede il quotidiano come anche noi dovremmo, se desideriamo essere suoi discepoli, e si accorge del bisogno; osserva la storia leggendovi dentro e propone un messaggio. E’ convinto che il messaggio che Dio vuole trasmettere sia nascosto nel quotidiano, proprio come il lievito nascosto da una donna nella massa della farina: «A che cosa rassomigliamo il regno di Dio? È simile la lievito che una donna ha preso e nascosto in tre staia di farina, perché sia tutta fermentata» (Lc 13,20-21). Lo sguardo di Gesù è capace di scoprire la presenza di un senso nel quotidiano e vuole educare noi a fare altrettanto. Egli riesce ad andare oltre il confine, oltre il limite al quale si fermano abitualmente gli altri.
Per questo motivo scopre il desiderio profondo di liberazione di un peccatore, scopre il desiderio di libertà del figlio che va via da casa.
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane di loro disse al padre: “Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. Ed egli divise fra loro i beni. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, messa insieme ogni cosa, partì per un paese lontano e lì sperperò i suoi beni, vivendo dissolutamente. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi a pascolare i maiali. Ed egli avrebbe voluto sfamarsi con i baccelli che i maiali mangiavano, ma nessuno gliene dava. Allora, rientrato in sé, disse: “Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: “Padre, ho peccato contro il cielo contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi”. Egli dunque si alzò e tornò da suo padre. Ma mentre egli era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione; corse, gli si gettò al collo e lo baciò. E il figlio gli disse: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai suoi servi: “Presto, portate qui la veste più bella e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi; portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato”. E si misero a fare gran festa. Ora il figlio maggiore si trovava nei campi, e mentre tornava, come fu vicino a casa, udì la musica e le danze. Chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa succedesse. Quello gli disse: “E’ tornato tuo fratello e tuo padre ha ammazzato il vitello ingrassato, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si adirò e non volle entrare; allora suo padre uscì e lo pregava di entrare. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando; a me però non hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici. Ma quando è tornato questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato”. Il padre gli disse: “Figlio, tu sei sempre con me e ogni cosa mia è tua; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,11-32 ) .
Conosciamo bene la parabola che particolarmente in questo periodo diviene oggetto di meditazione, di riflessione per tanti. Esprime la rivoluzione di Dio, silenziosa, ma tanto efficace. Mi piace offrirvi, quasi breve commento che focalizza la nostra meditazione su questa pagina di Luca, il brano di Ezechiele: «Dovunque giunge il torrente ogni essere vivrà. Dove penetra quest’acqua essa risana, poiché esce dal Santuario» (Ez 47,8ss). La parabola ci dice che Dio cammina dove va il dolore, la tristezza, il peccato. La misericordia del Padre si potrà espandere se il nostro cuore diviene sua sorgente dalla quale scaturisce il suo amore. Dio agisce da Dio, cioè da misericordioso, anche per mezzo nostro. Da un cuore abitato dal Misericordioso sgorgheranno fiumi di acqua viva che raggiungono le fragilità, le miserie dell’altro. Questo ci chiede di scendere nel profondo delle nostre ferite che diventano motivo per comprendere quelle altrui.
Gesù, ogni giorno ci spinge verso una terra sconosciuta, quella di ogni persona che ci sta accanto, che incontriamo nel nostro cammino. Finché c’è una persona da guarire, attraverso il perdono, il Signore le cammina accanto e ci chiede di accompagnarla, curarne le ferite, abbracciarla. Non possiamo pronunciare il nome di Dio senza salutarlo lungo la strada, senza “accompagnarlo”. Gesù va verso gli altri, gli emarginati, i senza volto, senza nome, senza identità, senza domicilio e li invita al banchetto della festa: «Facciamo festa perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,32). Chi sbaglia è sempre figlio di Dio e nostro “parente” e Gesù ce lo affida perché gli facciamo festa, condividendone la miseria.
Se la compassione è la caratteristica di Dio, in tutte le sue creature, noi raggiungiamo le nostre vere radici, le nostre radici divine, quando essa sarà divenuta il principio del nostro pensare e del nostro agire. Il padre della parabola è la radice della compassione e noi contemplandolo nel suo agire abbiamo sempre fiducia, anche se il nostro peccato è grande, come era stato quello del figlio minore della parabola. Gesù crocifisso è il segno, nella storia umana, della compassione del Padre il quale accoglie, abbraccia, perdona, fa festa. La compassione di questo padre è come un innesto del suo cuore in quello di ogni suo figlio. Questa è la nostra avventura: siamo uniti strettamente a Lui e tra di noi: «un corpo solo e un’anima sola» (cfr. At 4,32).
Mi piace offrirvi, miei cari, questo bellissimo pensiero-preghiera di Santa Caterina: «Io ti do il mio cuore, perché del tuo e del mio ne faccio uno solo e voglio che per l’avvenire questo Cuore sia una tenda dove io possa abitare e restare sempre unito a te, e tu a me…» «È per te che Dio fu innestato nell’uomo, Dio-e-uomo corse, come innamorato, alla obbrobriosa morte di croce. In questo arbore si volle innestare…» (Caterina da Siena, Lettera 101).
Il figlio di cui parla la parabola è stato abbracciato dalla compassione del padre che gioisce, fa festa ed invita a far festa. Questa è l’avventura del povero cristiano!
Gesù scopre la sofferenza dell’adultera…
«Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. È Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,3-11).
Sant’Agostino, contemplando l’episodio di questa pagina evangelica dichiara che si incontrarono: “La misera e la Misericordia”. Lo sguardo di Gesù restituisce al cuore di questa donna il suo vero volto, che poi è il nostro volto: essere figli amati. Gesù ha amato questa donna, l’ha riportata alla sua profondità, facendole riscoprire la sua vera identità di figlia di Dio sempre pronto al perdono, a donare la vita vera, a introdurla in quell’amore che nasce da Lui e per questo è un amore bello e gioioso. La donna si è sentita veramente amata e non giudicata. In lei ci siamo tutti noi; ci sono io, ci sei tu, c’è il volto di Dio. Volto sfigurato che diviene bello di quella bellezza che nasce dal dono e dal perdono. Prima, volto sfigurato, dopo ritornato ad essere volto di Dio.
Lo sguardo di Gesù restituisce a questa donna il suo vero volto, il suo vero cuore, il suo vero corpo. La mano che scrive per terra indica la fragilità della donna e di ciascuno di noi, ma anche quella disponibilità del Signore a togliere la bruttura del peccato. È la mano che cura le ferite dell’adultera e le nostre ferite, svelando la profondità di un cuore rimesso nella sua vera dimensione: l’amore! Gesù con il suo amorevole atteggiamento cura le profonde ferite di questa donna, toglie la maschera della doppiezza, che svilisce l’opera di Dio, e le ridona la sua identità di figlia amata. Certamente era una donna inferma, bisognosa di perdono, di amore e il Signore l’ha riportata alla sua originaria identità; vede il suo cuore ferito, guarda il peccato, ma non la giudica; si offre come medico, come fratello, come padre, come amico, come sposo, come signore della sua vita, e la donna rinasce.
Dall’infedeltà, data dal concedersi, passa alla felicità dell’amore che perdona ridando la gioia di essere donna. Dal volto sfigurato di Dio in lei passa ad essere il segno della compassione di Cristo che le ridona la pace profonda e la gioia di sentirsi donna amata.
Da uno sguardo che attira l’uomo è passata ad essere oggetto dello sguardo amoroso e risuscitante di Cristo, divenendo volto luminoso di una bellezza che non nasce dall’uomo, ma dal «più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 44,3); quindi una bellezza divina. Questa offerta il Signore la concede anche a noi, sempre. Nel volto di questa donna ci riconosciamo tutti, tutti colpevoli, perché tutti peccatori e adulteri nei confronti di Dio per le scelte che facciamo nel quotidiano del “secondo noi” e non del “secondo Dio”. Gesù ha richiamato alla vita questa donna, ed in lei, richiama sempre ciascuno di noi perché la sua misericordia è di generazione in generazione. La rimanda raccomandandole di non perdersi più il mistero dell’amore di Dio impresso nella sua persona. L’ha richiamata alla vita! D’ora in poi l’incontro con il Compassionevole sarà la guida, la luce dei suoi giorni felici. Il Signore le ha ridato la gioia di sentirsi donna vera, amata, luminosa, bella sì perché lo Sposo a lei e a tutti noi offre la sua luce: «Ridona la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda un sonno di morte» (Sal 12,4). La luce di Cristo ha dissipato le sue tenebre e da allora lei, come tutti noi, ha visto la meraviglia di Dio: la misericordia ed il perdono.
Gesù sa leggere oltre, sa andare oltre, come ci insegna l’episodio di Zaccheo…
«Entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunge sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. In fretta scese e lo colse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: “E’ andato ad alloggiare da un peccatore!”. Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. Gesù gli rispose: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo; il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,1-10).
In questa pagina evangelica c’è la verifica di tutto l’atteggiamento di compassione del Signore che riabilita, dà un senso nuovo a quest’uomo che mentre ospita a casa sua Gesù è da Gesù ospitato tanto da affermare alla fine: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa». Un uomo, Zaccheo, ricco, ma piccolo di statura e non solo in senso fisico; non era cresciuto nella consapevolezza dell’amore a Dio e al prossimo, anzi era un esattore spigoloso e tignoso di tasse per il quale il denaro era tutto, smarrendo la dignità della sua origine divina. Gesù, che vede nel profondo, gli dice: «Oggi devo fermarmi a casa tua». Il Signore sa leggere oltre e vede in quest’uomo un desiderio ardente di verità, di pace, di felicità. Passa dall’essere giudicato ridicolo dalla gente nella ricerca di salire sul sicomoro per vedere Gesù, lui esattore di tasse, servo del potere, ad accogliere Gesù che si auto invita: «Oggi devo fermarmi a casa tua».
Se Sant’Agostino commentando l’episodio dell’incontro di Gesù con l’adultera disse che si incontrarono: «Misera et Misericordia» comprendiamo cosa significhi com-passione, quella che ci avvolge sin da quando siamo stati generati e per la quale spesso dimentichiamo di rendere grazie ed esercitarla nella quotidianità. «Perdonati, perdoniamo»; ricordando che con la misura con la quale misuriamo saremo giudicati. Fa pensare, tornando all’episodio di Zaccheo, l’idea di uscir fuori dalla massa; deve estraniarsi, appartarsi; deve percorrere un cammino, deve uscire, deve fare un esodo, realizzare un distacco perché senza l’allontanamento dalla folla non poteva vedere ed incontrare Gesù. Questo è il distacco che il Signore chiede a ciascuno di noi. Non possiamo incontrare Gesù, non possiamo “vederlo” senza “uscire” fuori da noi stessi. Non possiamo incontrare Gesù senza questa uscita, questo esodo; senza questo allontanamento dalla folla, e proprio questo ha fatto Zaccheo. Se desideriamo avere il Signore in noi, nella nostra “casa”, dobbiamo “allontanarci dalla massa”, dobbiamo salire su un “sicomoro”.
Non ci può essere fede come visione di Dio senza una salita, senza un arrampicamento, cioè un distacco da sé, da quell’ io nel quale spesso anche Dio è prigioniero. In questo itinerario di Zaccheo, che poi è quello della nostra vita cristiana, c’è il segreto della vita di ciascuno di noi. Solo quando, come Zaccheo, lasciamo la “folla” cominciamo il cammino verso la visione di Dio. Ma perché la nostra vita di cristiani non sembri frutto solo e prima di tutto della nostra buona volontà l’Evangelista presenta Gesù che guarda in alto. In questo atteggiamento vediamo il misericordioso, il compassionevole: è sempre lui, non si smentisce, che guarda l’uomo e in questa ottica vediamo l’Incarnazione, il Natale, la Pasqua. «Per noi e per la nostra salvezza discese dal cielo… Morì e fu sepolto e il terzo giorno è risuscitato» (Professione di fede). «Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14a).
Il Signore si compiace di abitare in mezzo a noi. La nostra vita diventa abitata da lui. Ricordiamocelo: l’uomo non può salire a Dio se Dio per primo non scende “in casa nostra”. «Oggi devo fermarmi a casa tua»: questo ci dice il Misericordioso, il Compassionevole. Questo oggi è il segno della compassione di Gesù per noi: un rimanere, che è il verbo della condivisione. Zaccheo è il simbolo della nostra realtà; prendendo esempio da lui possiamo avere la gioia di quest’uomo, godere della intimità di Gesù facendo della nostra vita una vita “abitata” come risulta da questa pagina evangelica nella quale non c’è una logica in linea con la meritocrazia, come avviene nella società a tutti i livelli: politici, economici, religiosi, educativi. C’è la logica della compassione, del cum-patere. Gesù apre la strada della gratuità dell’amore, della compassione a tal punto da “contaminarsi” entrando nella casa di Zaccheo. Egli entra nel cuore e risponde alle attese del cuore. Questo atteggiamento rigenera Zaccheo a tal punto che dà inizio ad una vita di compassione, di carità: «Signore, ecco io do la metà dei miei beni ai poveri, se ho frodato qualcuno gli restituisco quattro volte tanto».
La carità scaturisce da un incontro con il Compassionevole. D’ora in poi Zaccheo, l’egoista, l’arcigno esattore di tasse, “vede” la vita degli altri. Chi si accorge di essere visto, guardato da Gesù e quindi sanato, a sua volta vede, si accorge dell’altro, lo fa mettere in piedi, lo rende sanato, proprio come capitò al figlio prodigo della parabola. Il padre attende, lo vede da lontano, lo abbraccia, lo riveste di dignità, fa festa. Vedere l’altro è il primo passo della compassione. Quanto è svilente camminare senza accorgerci di chi passa accanto, dei suoi problemi e quanto invece è arricchente, perché dà gioia al cuore, fermarsi, dare la mano, un sorriso, un incoraggiamento, guardare negli occhi. Non c’è compassione senza volgere lo sguardo benevolo verso l’altro. Ma non è sufficiente volgere lo sguardo se non condividiamo la vita, per quanto ci è possibile; e ancora in questo è Gesù il nostro maestro. Il Vangelo, come di solito, ci viene in aiuto. Gesù non poteva non insegnare ciò che lui era, dato che è venuto “per noi e per la nostra salvezza”. Ciò che fa, e vediamo come si relaziona con i peccatori, gli ammalati, è espressione del suo cuore aperto: mi interessi perché sono venuto per te!
Il Vangelo è la bella notizia della compassione di Cristo che ha il suo vertice sulla croce e nel dono del pane eucaristico. «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,33-46). «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi» (Liturgia Eucaristica). Qui la compassione di Cristo raggiunge il vertice del dono di sé. L’Eucarestia continua ad essere segno sacramentale del cuore di Cristo aperto alla nostra miseria: «Chi mangia di me, vivrà per me» (Gv 6,57). Il Signore non ci dà solo insegnamenti, ma se stesso come pane del nostro quotidiano, come sostegno, come condivisione che esprimono il suo desiderio di vivere in noi: «Io in voi, voi in me come io sono nel Padre e il Padre in me» (Gv 14,20). Essere abitati da lui è il segno più bello della compassione di Cristo per noi e per tutti. Essere abitati! Ecco perché dice che non ci lascerà soli; la sua presenza è garanzia di vita condivisa mentre ci chiede che a nostra volta viviamo condividendo la quotidianità con il prossimo.
Sappiamo tutti, chi in un modo, chi in un altro, cosa significhi e cosa comporti vivere condividendo. È una forma originale di nuzialità quella che il Signore realizza con noi discepoli e noi con lui e tra di noi, che è la più bella esperienza di condivisione, di com-passione. Vivere avendo questa coscienza ci porta a vedere la storia umana non con gli occhi dello spettatore, ma con il cuore di chi sa che dipende da lui, da lei rendere il mondo non solo solidale, ma “coniugale”! Dare spazio alla vita dell’altro vuol dire divenire costruttori di un mondo dove l’io e il tuo diventano un “noi” «nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia» (Rito del matrimonio). Un noi dove Gesù è in mezzo, non un estraneo, per perdonare le fragilità, benedire gli sforzi, per camminare insieme. Possiamo comprendere allora come il “vedere” l’altro senza accorgerci della sua vita significhi non essere nella dimensione di Cristo Gesù che cammina, vede, si ferma, chiede, tocca, si prende cura. Questo vale non solo fuori, ma prima di tutto nella nostra casa dove spesso esiste una solitudine inimmaginabile, soprattutto quando vi sono anziani o malati per i quali, per vari e comprensibili motivi, diventano presenza di conforto non tanto i parenti, quanto i badanti.
Per la riflessione…
- Credi nel valore della sofferenza?
- Hai idee su gesti concreti che possano testimoniare questa verità?
- Ti senti amato da Dio? Quanto tempo nella tua giornata dedichi a Lui?
- Quanto vivi il perdono su te e quanto sei capace di perdono per gli altri?
- Che spazio dai nella tua vita alla carità ?